La Sindrome di Stoccolma

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Dai recenti fatti di cronaca (ma anche da una delle nostre serie Netflix preferite!) abbiamo sentito spesso nominare la Sindrome di Stoccolma. Ma di cosa si tratta realmente? Per capirlo meglio dobbiamo tornare indietro al 1973. Era il 23 Agosto quando un giovane trentenne, Jan-Erik Olsson, da poco evaso dal carcere di Stoccolma in cui era detenuto per rapina, tentò l’ennesimo furto in banca con lo scopo di ottenere, oltre al bottino, anche la liberazione del suo “compagno di scorribande” ancora detenuto, Clark Olofsson, il quale si unì a lui nella rapina (vi risuona familiare?). Pensò bene di prendere in ostaggio alcune persone (tre donne e un uomo, poco più che 20enni, tutti impiegati nella struttura). La rapina durò 130 ore, durante le quali ostaggi e rapinatori vissero a stretto contatto tra di loro, in una stanza lunga e stretta, prendendosi cura gli uni degli altri. In questo clima “amichevole”, gli ostaggi iniziarono a non temere più per la loro incolumità, nonostante la costante presenza delle armi da fuoco, se non di fronte alle “minacce” di intervento della polizia. Gli ostaggi iniziarono ad empatizzare con Olsson, ad entrare in contatto con le motivazioni che lo avevano portato a quel punto ed a provare compassione, tanto che, quando Olsson riferì alla polizia che avrebbe sparato alla gamba di uno di loro, questi arrivò persino a ringraziarlo per aver deciso di sparare alla sua gamba e risparmiargli la vita (e questo, vi ricorda qualcosa?)… alla fine di tutto, Olsson vide soddisfatte tutte le sue richieste, meno che una: la possibilità di fuga con i sequestrati.

La rapina di Stoccolma fu il primo caso in cui si procedette alla valutazione psicologica delle vittime, le quali sottolinearono le gentilezze che i rapinatori ebbero nei loro confronti, definendoli quasi dei “salvatori”, tanto che due delle sequestrate intrapresero in seguito una relazione con i rapinatori. I risultati dell’indagine e gli studi seguenti allo strano fenomeno della rapina di Stoccolma accertarono che non si trattava di un evento isolato, ma era molto comune, tanto da rintracciarne dei casi anche in campi di concentramento, bambini abusati, prostitute e protettori, prigionieri di guerra, e naturalmente, altri ostaggi di rapine. Ad oggi sappiamo che possono soffrire di questa sindrome anche le vittime di relazioni violente e abusanti: può essere quindi presente all’interno di coppie o famiglie con membri particolarmente autoritari o violenti. I casi di cronaca ci raccontano di tante altre storie, ricordiamo ad esempio il caso di Natascha Kampusch, o la recentissima e ancora tanto discussa Silvia Romano.

L’American Psychiatric Association (APA), durante la stesura della V edizione del DSM, riflettè sulla possibilità di inserirlo all’interno del manuale, optando, infine, per la sua esclusione. Nonostante questo, però, possiamo delineare alcune caratteristiche che sembrano accomunare i soggetti che manifestano questo “disturbo”.

  1. Tutte le vittime hanno vissuto in un contesto di minaccia per la propria sopravvivenza;
  2. Le vittime riferiscono comportamenti di “cura” da parte del proprio aguzzino;
  3. Isolamento totale dal mondo esterno;
  4. Isolamento totale da prospettive alternative a quella del loro aguzzino (non aveva altra scelta, sta facendo l’unica cosa possibile, sta facendo la cosa giusta);
  5. Le vittime iniziano a provare sentimenti positivi e di affetto e gratitudine verso l’aggressore, e, al contempo, sentimenti negativi o di ostilità verso chi cerca di salvarle.

Nonostante le vittime sembrino operare una scelta “consapevole” di ciò che reputano giusto o sbagliato in quel contesto, in realtà si sta attivando in loro un meccanismo di sopravvivenza alla condizione in cui si trovano, il quale spinge la vittima a passare da uno stato di incredulità circa propria condizione, ad una disillusione sulla propria salvezza, ed infine ad un riesame su di sé e sulla propria vita.

Dopo il ritorno alla normalità compaiono spesso sintomi quali disturbi del sonno, flashback, stati d’ansia, sintomi depressivi. Tutto ciò comporta conseguenze sulla vittima a livello:

  • Emotivo (ansia, apatia, depressione)
  • Cognitivo (problemi di memoria e concentrazione)
  • Sociale (ricerca di isolamento)
  • Fisico (come conseguenze delle possibili deprivazioni vissute – cibo e sonno).

Si tratta di sintomi accomunabili tutti ad un Disturbo Post Traumatico da Stress, e come tale viene trattato in Psicoterapia.

È bene ricordare che la Sindrome di Stoccolma è la sindrome delle vittime, e non dei carnefici (c’è un nome anche per questa: Sindrome di Lima – ma questa è un’altra storia!), ed è molto più vicina a noi di quanto possiamo immaginare.


Dott.ssa Ylenia De Carlo